Allattamento, svezzamento e ferro nella dieta

L’utilizzo del Ferro a partire da elementi presenti nella dieta del lattante/divezzo. Prevenzione delle anemie e dei difetti di crescita

Dr. Stefano Tasca
Pediatra e Chirurgo Pediatra
-Roma-


INTRODUZIONE

Il passaggio da “feto” a “neonato” comporta, per il bambino, alcune modificazioni. Una delle più importanti riguarda la composizione del sangue. Infatti l’emoglobina fetale (HBF), che ha caratteristiche incompatibili con una normale funzione di trasporto/ossigeno, una volta che la ventilazione sia garantita dai polmoni, viene totalmente eliminata e sostituita con Emoglobina normale (HBA). L’emoglobina è composta da una parte proteica e da un nucleo (EME) che contiene il ferro, vero attore nel trasporto dell’ossigeno ai tessuti. La distruzione della HBF comporta la liberazione, quindi, di una grande quantità di ferro, anche in considerazione del fatto che il feto/neonato è “pletorico”, vale a dire che ha una quantità molto alta di globuli rossi (e quindi di emoglobina, che in essi è contenuta). Il ferro di risulta viene in parte utilizzato per la sintesi della nuova emoglobina ed in parte (data la tendenza dell’organismo a risparmiare) viene immagazzinato sotto forma di ferritina e/o di emosiderina. La situazione del neonato è quindi quella di un soggetto con ampie scorte di ferritina e con un normale tasso di emoglobina. Non c’è anemia (se non in casi particolari) e non c’è neanche la tendenza a svilupparla, dato che, man mano che il piccolo cresce, per la sintesi di nuovi globuli rossi viene utilizzato il ferro già immagazzinato. La crescita, però, comporta anche una modificazione non solo quantitativa (aumento di dimensioni) ma anche e soprattutto qualitativa (aumento della massa e del “peso specifico”): mi riferisco in particolare alla massa magra e, per essere più preciso, ai muscoli. Questi ultimi contengono una sostanza, la mioglobina, che è responsabile dell’utilizzo dell’ossigeno a livello delle strutture contrattili e quindi, in definitiva, della contrazione stessa. La mioglobina, come l’emoglobina ed altre strutture deputate alla circolazione ed all’utilizzo dell’ossigeno (ad esempio i citocromi), contiene anch’essa ferro. Si giunge a questo punto ad una considerazione di non irrilevante importanza: i calcoli del ferro alimentare, fatti sulla base del solo utilizzo a scopo emopoietico, sono corretti? Gli studiosi di ogni parte del mondo sottolineano l’aspetto “anemia” trascurando, a mio giudizio, un fattore che è, nei fatti, imprescindibile: la sintesi della mioglobina che va in parallelo con la crescita in massa magra. Negli adulti (a crescita stabilizzata) la mioglobina  ed i citocromi impegnano circa il 10% del patrimonio di ferro dell’organismo. In un neonato/lattante (quindi in crescita attiva), date le riserve scarse e l’apporto alimentare non determinante se la dieta è esclusivamente lattea, anche questo 10% fatica ad accumularsi sotto forma di metalloproteine. Occorre molto ferro, da una certa età in poi: è davvero sufficiente soltanto quello garantito dal latte materno o da formule arricchite oppure da diete a base di farine e cereali? E se si, fino a quale età si può ragionevolmente pensare di rimanere entro limiti accettabili?
In questo scritto cercherò di osservare ciò che accade nei fatti in un organismo in crescita ed esporrò quale sia, a mio giudizio e sulla scorta di studi accreditati, il sistema più fisiologico per mantenere un corretto equilibrio nutrizionale.

 

IL LATTE DI DONNA NEI PRIMI MESI

Non si finirà mai di ripetere il latte umano è l’alimento per eccellenza nel neonato e nel piccolo lattante. Il contenuto in ferro è scarso ma, dato che il suo assorbimento è massimale e completo, esiste la garanzia che i fabbisogni siano rispettati. L’anemia del neonato, come sopra detto, non è infatti di riscontro frequente. Cosa accade, però, quando la crescita del bambino si fa macroscopica? Fino al 3°-4° mese di vita il bambino raddoppia il suo peso alla nascita e la sua crescita è prevalente in massa grassa. La quantità di calorie fornita da un’efficiente lattazione (in media 150 ml di alimento per 6 poppate) è di circa 600 cal. Calcolando, sempre in media, che un bambino il cui peso alla nascita sia di 3,000 Kg. al 4° mese peserà approssimativamente Kg. 6,000, rileviamo, a quel traguardo, una quantità/Kg/die di 100 calorie (già lievemente inferiore al fabbisogno reale che si attesta intorno alle 110). La maggior quota di potere calorico, nel latte di donna, è data dai grassi (circa 3,7%) e dai carboidrati. Le proteine sono in ragione del 3% circa e comprendono, oltre alla caseina ed alle proteine del siero, anche immunoglobuline ed aminoacidi liberi (che non rientrano direttamente nell’utilizzo a scopo nutrizionale). Questo rende ragione del fatto che, dati gli scarsi consumi del neonato, la preponderanza degli elementi energetici nella dieta porti ad un rapido accumulo di grassi e ad uno scarso aumento della massa muscolare. Dal 4° mese in poi la crescita è notevole in massa magra. Il bambino infatti rallenta la sua crescita in peso ed aumenta di dimensioni prevalentemente in lunghezza e tono. Per seguire questi specifici fabbisogni occorrerebbe modificare la composizione del latte materno (cosa impossibile) dato che si incrementa di molto la richiesta di elementi plastici e non semplicemente energetici. Il raddoppio del peso alla nascita, inoltre, conduce allo stabilirsi di una precaria condizione di equilibrio nel metabolismo del ferro dato che, essendo la richiesta per la sintesi muscolare scarsa nei primi 3-4 mesi, esso viene utilizzato in modo privilegiato per la sintesi dell’emoglobina. Il bambino a quest’età, tenderà ad avere un normale tasso di HB ma una ferritina bassa. Posto il fatto che inizia, a questo punto della vita, l’utilizzo del ferro (e delle proteine) anche per la costituzione di massa muscolare, è più che reale il rischio che il suo apporto, garantito dal solo latte, sia insufficiente.

L’OMS raccomanda l’utilizzo dell’esclusivo allattamento al seno fino ai 6 mesi e l’evitamento di cibi solidi più o meno fino ad un’analoga età a partire dalla quale si caldeggia uno svezzamento a base di farine e cereali arricchiti di ferro. A mio giudizio (e non solo mio) attendere quest’epoca per introdurre alimenti solidi reintegratori di ferro può essere un errore. Tra le altre cose il timore che introducendo cibi solidi si interferisca con la lattazione è smentito dall’evidenza clinica. In un recente ed illustrativo articolo su Pediatrics (“Solids and formula: association with pattern and duration of breastfeeding” – Hornell A, Hofvander Y, Kylberg E – Pediatrics vol 107 pag 38 March 2001 – Uppsala University – Sweden) si sottolinea proprio come il rischio di interferenza sia maggiore con la somministrazione di latte formulato e non con quella dei solidi e che la durata dell’allattamento è indipendente dall’età in cui questi vengono introdotti.
In un ulteriore studio su Pediatrics [17] trovo inoltre conferma del fatto che i  bambini allattati esclusivamente al seno presentano una massa idrica totale corporea più bassa della media all’età di tre mesi, hanno un patrimonio di potassio depleto tra 3 ed i 24 mesi e presentano un più basso tono minerale osseo all’età di 12 mesi. La massa magra tende ad essere meno rappresentata all’età di 3 mesi e fino ai 9 mesi a vantaggio della massa grassa (fino ai 6-9 mesi). La composizione della dieta (esclusivamente lattea) in grassi, proteine e carboidrati risulta inoltre più bassa del richiesto all’età di 3 e di 6 mesi ed appare chiaramente responsabile più dell’acquisizione di massa grassa che di massa magra. Seppure questa notevole differenza di composizione corporea tra bambini nutriti esclusivamente al seno e bambini divezzati tenda a scomparire intorno al 2° anno di vita, nondimeno possiamo dire che, essendo i primi due anni di vita cruciali per il consolidamento di determinate strutture (sistema nervoso, mielina, competenza neuromuscolare, impalcatura ossea, ecc.), la necessità di intervenire sostenendo l’allattamento al seno con un’integrazione alimentare di differente natura (che completi quanto il latte già apporta) diviene, oltre che utile, cruciale.
Seppure si ammetta che fino a 6 mesi di età un carico proteico non apporti variazioni nella qualità della crescita [18] si può facilmente estrapolare un dato e cioè che la supplementazione del latte materno con elementi proteici di derivazione carnea non viene fornito solo per incrementare la crescita ma soprattutto per aumentare l’apporto di ferro. In pratica (come si vedrà nel prosieguo) aggiungere pappe con carne alla dieta lattea serve per evitare deplezioni del metallo, non per incrementare la crescita del bambino.
Non intendo infatti parlare di anemia in senso stretto: la sintesi dell’emoglobina è infatti privilegiata rispetto agli altri utilizzi del ferro alimentare, quindi anche un bambino nutrito esclusivamente al seno difficilmente diviene anemico almeno fino ai 6-9 mesi. Il rischio di divenire depleti di ferro, in questi soggetti, è infatti legato più alla velocità di crescita che ad altri fattori: essendo rallentata l’apposizione di massa magra, l’utilizzo del ferro (anche se introdotto in quantità basse) segue il canale dell’emopoiesi e non quello della massa muscolare e dei citocromi. Del resto, però, è altrettanto vero [19] che il contenuto in ferro e rame del latte di donna cala progressivamente col tempo e comunque tende, col passare dei mesi, ad essere inferiore ai reali fabbisogni (infatti il quantitativo viene stabilito pro/Kg e quindi, se anche la concentrazione di questo elemento nel latte rimane costante, la crescita in peso del bambino fa divenire insufficiente, col tempo, quell’ammontare).  ( vedi Figura)
 

La fonte di ferro è duplice: l’organismo del neonato attinge sia da quello immagazzinato (ferritina, emosiderina) che da quello di derivazione alimentare. Il primo si accumula alla nascita e non tende ad essere reintegrato nei primi mesi di vita dato che l’aumento di dimensioni del corpo (raddoppio del peso dalla nascita al 4° mese) porta con se anche un aumento della massa di sangue (e quindi un rapido consumo delle scorte). Il secondo (che nel latte materno è in quantità relativamente scarse) viene utilizzato man mano che la crescita procede. Si raggiunge così un punto di “intersezione” tra crescita fisica e fabbisogno di ferro, individuabile appunto intorno al IV-V mese di vita. Da questo momento in poi cambia il tipo di crescita. Infatti l’aumento di peso rallenta dato che è privilegiata la massa magra già presente (i muscoli in modo particolare, ma anche l’osso, ecc.) che richiede apporti non più di tipo energetico ma di tipo plastico (per intenderci: “mattoni” e non solo manodopera). In questa fase il bambino (come già detto) ha un’abbondante riserva grassa, uno stato del ferro emoglobinico normale (non è anemico) ed una riserva di ferro in via di esaurimento (la ferritina è bassa).

Cosa accade se non si incrementa la quantità di ferro alimentare e si prosegue indefinitamente col solo latte materno? Accade che il ferro presente nel latte tende progressivamente ad essere insufficiente (per quanto sia ben assorbito) e viene quindi (per il mantenimento della sopravvivenza) deviato prevalentemente nella via emopoietica (per intenderci viene utilizzato esclusivamente per la sintesi dell’emoglobina). In caso di crescita lenta questo determina un risultato macroscopico: il bambino non diviene anemico ma (come testimoniato da studi accurati) tende a crescere prevalentemente in massa grassa (dato che la sintesi dell’actina, della miosina, della mioglobina e dei citocromi passa in secondo piano rispetto alla sintesi della massa ematica). Nel caso, invece, di crescita rapida si assiste ad una discrepanza notevole tra ferro ingerito e ferro utilizzato, dato che in queste condizioni la massa magra si incrementa comunque. Questo significa che il ferro alimentare deve supportare SIA la sintesi dell’emoglobina SIA la sintesi della mioglobina e delle altre metalloproteine. Il risultato sarà una progressiva anemizzazione, tanto più marcata quanto più veloce è la crescita.
In entrambe le situazioni la carenza di ferro alimentare inciderà in modo significativo o solo sulla crescita in massa magra (ipotono muscolare, nel primo caso), oppure su questa e la sintesi di emoglobina (anemia ed ipotono muscolare, nel secondo caso). Comunque determinerà alterazioni più o meno significative a qualche livello.
In definitiva, quindi, per un rispetto totale della crescita in nell’età critica compresa nei primi due anni di vita ma più specificamente nel periodo cruciale individuabile tra i 4 ed i 9 mesi, il “si” incondizionato al latte di donna deve essere accompagnato da un’integrazione alimentare che comprenda cibi variati a contenuto proteico, glicidico, lipidico e minerale bilanciato rispetto ai fabbisogni. In poche parole il latte materno dovrà essere affiancato dallo svezzamento a partire dal IV mese circa.

L’ASSORBIMENTO DEL FERRO

Per l’assorbimento del Ferro alimentare sono indispensabili alcuni alimenti (pollame, carne in genere, pesce, acido ascorbico, tuorlo d’uovo). Il ferro di derivazione animale, in definitiva, è quello meglio assorbito al contrario di quanto avviene nel caso del ferro di derivazione vegetale che è legato a sostanze (fitati, polifenoli) che ne inibiscono l’acquisizione. Bisogna tener conto anche di un fattore di regolazione intrinseco all’organismo stesso: quando diminuisce il valore della ferritina, aumenta l’attività di assorbimento del ferro. [1]

Se assunto dalla carne (ferro-eme, cioè derivante dalla degradazione dell’eme contenuto nella mioglobina della carne o del pesce) il ferro ha una via privilegiata per l’assorbimento [2], [3], [4], [5].

In particolare si nota che le anemie carenziali sono molto meno frequenti in Paesi dove esiste un adeguato consumo di carni [3]. La distruzione dell’emoglobina e della mioglobina da esse derivanti porta alla liberazione dell’eme (la parte contenente il ferro) il quale viene reso solubile dalla porzione proteica ad esso legata (globina). Su questa forma del ferro i chelanti (fitati, polifenoli, calcio, ecc.) non hanno alcun effetto per cui non ne inibiscono l’acquisizione a livello delle cellule intestinali. L’eme, quindi, penetra negli enterociti (le cellule intestinali) nel cui citoplasma un enzima (eme-ossigenasi) libera il ferro  che viene immediatamente legato a proteine-carrier (mobilferrina e paraferritina) aventi il compito non solo di trasportarlo nei siti di utilizzo ma di facilitarne la captazione e l’incorporazione. Esiste un meccanismo di feedback che regola la quantità di ferro da far penetrare nell’organismo. Quando gli enterociti ne sono saturi, il ferro ulteriormente presente nell’intestino non viene assorbito: la penetrazione di nuovo ferro si determina quando gli enterociti hanno ceduto il loro contenuto e sono di nuovo pronti ad avviare la via metabolica di captazione.
In persone sane, quindi, l’assorbimento del ferro si adatta alle esigenze dell’organismo. Viene comunque privilegiato il ferro di derivazione animale (ferro-eme) in condizioni di presenza di scorte. Nel caso in cui queste ultime siano particolarmente scarse l’organismo avvia anche l’assorbimento del ferro a partire da elementi nutritivi differenti (ad esempio le verdure: ferro non-eme) [4] In uno studio particolarmente accurato è stato rilevato, infatti, che l’assorbimento del ferro è inversamente proporzionale al valore della ferritina. Se quest’ultima ha un valore normale il ferro-eme della dieta è l’unico ad essere assorbito mentre se è bassa ogni fonte viene sfruttata in modo efficiente. Il ferro-eme ha inoltre una funzione regolatoria sulla quantità di ferro da assorbire in ogni condizione. In un lavoro sperimentale su intestino di ratto è stato osservato che un eccesso di ferro alimentare non determina accumulo (e quindi possibili problemi) negli enterociti se una quota di esso è di derivazione animale [5]. Valori di ferritina inferiori a 60 mic.gr/l incrementano la via metabolica di assorbimento. Quando il valore raggiunge o supera i 60 l’assorbimento viene limitato alla quota sufficiente a controbilanciare le perdite.

In diete a basso contenuto di carne ed alto contenuto di verdure e calcio l’assorbimento del ferro è risultato ridotto della metà circa, rispetto al fabbisogno, anche per valori di ferritina inferiori a 60 mic.gr/l [9] Un alto apporto di calcio, invece, non sembra influenzare in modo significativo l’assorbimento del ferro non-eme, a patto però che la dieta sia variata (cioè contenente anche piccole quantità di ferro-eme). Aggiungere la carne alle puree vegetali fa aumentare anche l’assorbimento di ferro non eme [11], [12].

La supplementazione della dieta con vitamina A e beta carotene, infine, aumenta notevolmente l’assorbimento del ferro dal riso, dall’avena e dal mais [13]. I vegetariani sono esposti alle anemie carenziali, inoltre, se la loro dieta è ristretta e non garantisce un apporto sufficiente di acido ascorbico (Vit. C) ed acido citrico [14] In particolare la vitamina C è un potente elemento favorente l’assorbimento [16].

LA DIETA RAZIONALE PER LO SVEZZAMENTO - CONCLUSIONI

Dalle precedenti constatazioni si evincono alcuni elementi che riassumerò brevemente:
1) Il contenuto in ferro del latte umano (e del latte in genere) è scarso
2) Il fabbisogno di ferro non è relativo solo alla sintesi dell’emoglobina ma anche di strutture fondamentali presenti in ogni cellula e nei muscoli
3) In condizioni di esclusiva alimentazione lattea la crescita in massa magra è ostacolata
4) All’età di 4-5 mesi le riserve di ferro (costituite alla nascita) sono esaurite

La soluzione a questi inconvenienti è l’inizio del divezzo, condotto in modo razionale e ragionato, in base alle esigenze del singolo bambino e nel rispetto del suo peculiare tasso di crescita. Con questo voglio dire che il latte, almeno fino ai 9 mesi, deve costituire la quota principale di apporto di nutrienti e di fattori di protezione ma che ad esso debba essere affiancato un pasto (o due) costituito da alimenti di differente derivazione che possano apportare in modo equilibrato la giusta quantità di proteine, lipidi, carboidrati ed oligoelementi atti a promuovere un armonico sviluppo. L’introduzione di un pasto solido, nella mia esperienza, non ha apportato alcuna modificazione nella produzione di latte al seno. Alcune madri hanno allattato fin oltre i due anni di età del bambino (la media si aggira intorno ai 9 mesi). Nel contempo i loro figli si sono giovati dell’introduzione di:
1) frutta fresca al 2° mese e mezzo
2) crema di riso al 3° mese e mezzo
3) minestrina in brodo vegetale con olio d’oliva, carne e parmigiano dal IV mese
4) glutine intorno al 5°-6° mese
5) tuorlo d’uovo al VI mese
6) legumi al VI mese e mezzo
7) Pesce al VII mese
8) Prosciutto e formaggi magri all’VIII mese
9) Brodo di carne e pastina all’uovo al IX mese

Come si vede, intorno al IX mese la dieta è completa seppure mantiene le caratteristiche di una dieta da divezzo, in cui due soli pasti sostituiscono il latte ed uno solo di essi contiene pietanza. In questo modo l’alimentazione è variata in qualità e (elemento non trascurabile) in sapori.

Negli allattamenti artificiali, inoltre, risulta molto utile l’utilizzo di latte vaccino opportunamente modificato in casa (vedere www.ilnido.isnet.it/pediatra/pediatra.htm  “Il buon latte vaccino”) a partire direttamente dall’inizio del divezzo. La diluizione di questo alimento porta ad un abbattimento del calcio in esso presente che, del resto, non impedirebbe comunque l’assorbimento del ferro dato che la sua introduzione è parallela alla somministrazione di ferro-eme con la carne o suoi analoghi.

 

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